Affannarsi dietro a un blocco di ghiaccio

di Angela Maderna

Da ormai diversi anni tengo sulla libreria accanto alla scrivania un’immagine che, forse in modo un po’ pessimistico, lo ammetto, mi è sempre sembrata la miglior allegoria possibile della vita. La fotografia, stampata sulla copertina di un libro, ritrae un uomo di spalle che indossa abiti chiari e un paio di scarpe da ginnastica primaverili di un rosso vivo, l’uomo è chino su un grosso parallelepipedo di ghiaccio bianchissimo ed è intento a spingerlo davanti a sé con tutte le sue forze sotto al sole. L’immagine è uno still da video della registrazione di un’azione eseguita da Francis Alÿs nel 1997 dal titolo Paradox of Praxis 1, nel corso della quale l’artista ha spinto un enorme blocco di ghiaccio per nove ore lungo le strade di Città del Messico. Con l’incedere dell’artista e col passar del tempo il ghiaccio si scioglieva e volume e peso si riducevano, lasciando dietro di sé una flebile ed effimera traccia di quel passaggio, macchie d’acqua che evaporavano al sole scomparendo in men che non si dica. Il sottotitolo di questa azione è Sometimes Making Somethings Leads to Nothing.
Le vite di chi riflette sull’arte in questi tempi di iperconnessione potrebbero essere paragonate a questa immagine, come quella di chi spinge insensatamente un blocco di ghiaccio senza sapere dove riuscirà ad arrivare, ma con la consapevolezza che una volta giunti alla fine, tra le mani non rimarrà nulla e forse quasi nessuno ricorderà di quel tragitto.
Da diverse settimane è arrivato l’isolamento, si sono fermate le attività sfiancanti che costringevano a ritmi di vita forsennati e a una socialità ad alto tasso di finzione, causati dal continuo susseguirsi di eventi culturali che, in trappola nel vortice della forza centripeta, bisognava seguire e di cui era necessario scrivere, pur senza avere, nella maggior parte dei casi, il tempo di soffermarsi e sviluppare una conoscenza profonda sulle questioni.
Poi improvvisamente il vuoto: tutto chiuso, nessuna mostra da visitare, nessun’opera su cui scrivere. Certo, c’è stata la corsa al presenzialismo digitale. Le istituzioni e gli operatori culturali si sono affrettati a offrire alternative alle consuete attività e si è assistito al proliferare di dirette Instagram e progetti on-line, probabilmente senza (ancora una volta) prendersi il tempo per riflettere sul fatto che così facendo stavano inchiodando i propri ex-visitatori davanti a uno schermo, facendo loro assumere posture sedentarie da spettatore fisicamente inattivo e invisibile, presente ma assente, a causa della distanza. Jean-Jacques Wunenberger scrivendo di spettatorialità televisiva afferma: “movimenti, rumori, sensazioni corporee fanno tutti parte del tessuto dell’esperienza di uno spettacolo dal vivo e vengono in qualche modo filtrati e neutralizzati dalla posizione frontale davanti a uno schermo.” Chiaramente qui non si parla di spettacolo ma piuttosto di conversazioni o conferenze che richiedono anche una predisposizione mentale attiva che però, nel caso dei live sui social network, per esempio, è continuamente disturbata dalle incessanti interferenze dovute a notifiche e commenti, che minano la concentrazione.
In ogni caso passate le prime settimane di spaesamento, potendo finalmente fermarsi e pensare ci si rende conto che, come insegna la tradizione taoista e come spiega molto bene Giangiorgio Pasqualotto nel suo Estetica del vuoto, il vuoto ci serve tanto quanto il pieno (come in un vaso) e quindi, come il saggio, bisognerebbe imparare a fare spazio per lasciar agire il vuoto, che non significa restare inerti, bensì permettere al nostro agire di tornare ad essere libero.
La quarantena naturalmente non è la meta di questo percorso in compagnia del gelido parallelepipedo, ma d’un tratto è possibile smettere di affannarsi dietro a quel masso che, probabilmente, strada facendo era già diventato un po’ più leggero. Adesso è come se quel pezzo di ghiaccio che veniva spinto senza sosta e senza più motivazione si fosse sciolto del tutto (anche se più probabilmente è tornato temporaneamente nel congelatore) provocando un’apparente mancanza di occupazione intellettuale, ma al contrario di quanto si possa credere, quella che avrebbe dovuto essere una condizione difficile da accettare ora ha più il sapore di una liberazione.
Superate anche la grande frustrazione iniziale e la paura per un futuro che si fa sempre più incerto per tutti, ora è più facile riflettere, è possibile smettere di colpevolizzarsi per questa sorta di inazione in cui si è immersi per provare a trasformarla in qualcosa di più prezioso anche sul piano professionale (per quanto riguarda invece quello più strettamente umano meglio rifarsi alle parole recenti di Edgar Morin).
Questa situazione offre la possibilità di tornare a chiedersi perché era necessario spingere quel blocco di ghiaccio e in quale direzione lo si stava portando, smettendola di usare i muscoli per correre avanti e rallentando per concedersi di tornare allo studio e all’approfondimento, per i quali il tempo lento è strumento indispensabile e di cui si è spesso sentita la mancanza in questi anni di iperproduzione di contenuti culturali.
In una visione meno pessimistica oggi si può dire che, mentre il ghiaccio è fermo lungo il tragitto (no, non si è ancora liquefatto completamente), bisognerebbe far tesoro di questo momento di pausa per imparare a passare finalmente dalla quantità alla qualità del pensiero perché, per usare le parole di Zygmunt Bauman, “la permanente mancanza di tempo […] avvantaggia le idee banali”. Nel godersi questa “insostenibile leggerezza dell’essere”, rimasti senza nulla da spingere, possiamo tornare ad approfondire e chissà che magari così, una volta ripartiti col nostro parallelepipedo ghiacciato (perché presto o tardi succederà), la traccia che lasceremo non svanisca immediatamente dopo il nostro passaggio.

Nella foto: Francis Alÿs, Paradox of Praxis 1 (Sometimes Making Somethings Leads to Nothing), 1997

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